Ieri, in aula (per la sentenza di appello del processo ai componenti della commissione Grandi rischi), sono capitata per caso vicino ad alcuni familiari delle vittime. C’era un padre che teneva saldamente il braccio sulla spalla di suo figlio, come se stesse tenendo sù il mondo intero (hanno perso madre e sorella) e c’era una famiglia composta da padre, madre e figlia (a loro mancavano all’appello i nipoti e la nuora). I genitori erano evidentemente in là negli anni: la madre bellissima…bionda con gli occhi truccati, sembrava una Brigitte Bardot con il caschetto, la figlia un po’ più grande di me, bionda anche lei, bella anche lei, sorridente e gentile nei modi. Il padre, un uomo anziano, sembrava un po’ dimesso, probabilmente stanco. Ad un tratto ci informano che entro dieci minuti sarebbe uscita la corte, davanti a noi c’era un muro di giornalisti e telecamere che impedivano la vista, così quest’uomo, senza dire niente a nessuno, posa un fazzoletto di stoffa sulla sedia e sale con entrambi i piedi sul fazzoletto, con un balzo rapidissimo, per vedere in faccia la corte, nel momento della sentenza. La moglie e la figlia, assistendo alla scena, ridono. È rimasto lì, in piedi sulla sedia, per venti minuti, aspettando prima e ascoltando poi la sentenza che assolve 6 su 7 imputati per la morte, tra gli altri, dei nipoti. È rimasto sulla sedia come avrebbe fatto un Robin Williams o un ragazzino, con un’energia e una forza che mai avrei attribuito a un uomo di ottant’anni. Dopo la sentenza si è avvicinato a me – che piena di vergogna, piangevo – e mi chiede di aiutarlo a scendere. Subito gli porgo il mio braccio e insieme alla figlia, lo aiutiamo a venir giù.
Oh capitano, mio capitano!